Niente
donne, niente Chiesa. Una Chiesa senza le donne «è come il collegio
apostolico senza Maria» ha detto papa Francesco, conversando con i
giornalisti al ritorno dal Brasile. E ha aggiunto: «Non abbiamo ancora
fatto una teologia della donna. Bisogna farla». La battuta appartiene
allo stile dell’intervista: enunciato confidenziale, immagine di
effetto. Però è vera.
Naturalmente, non ci mancano riflessioni teologiche sulla donna e sul ruolo della donna nella Chiesa. Esiste anche una teologia femminista, che cerca di filtrare cristianamente i nuovi temi dell’emancipazione e della dignità del soggetto umano al femminile.
È anche vero, però, che rimane in circolazione una certa ambiguità, una specie di vischiosa deriva dell’ideologia della complementarietà, che occulta il genio femminile della differenza dietro l’aggiornata riproposizione di un arcaico schema servile. La complementarietà dell’umano è una cosa, il completamento del maschio è un’altra cosa. D’altra parte, il massimalismo avventuroso dell’obiettivo di una perfetta autosufficienza e di una formale uguaglianza, rischia a ogni passo di convertire l’emancipazione della femmina nella replicazione mimetica del maschio: nel segno dell’archetipo – duro a morire – dell’individuo umano compiuto, perfettamente padrone di sé, che non deve chiedere mai. L’ossessione di questo ideale (si fa per dire) ha già fatto abbastanza danni. Nelle nostre civilissime contrade, per altro, si moltiplicano in cronaca (e nella realtà) violenze e sopraffazioni che avevamo archiviato come memorie di un passato lontano. E come mai, proprio ora?
Per quanto riguarda la Chiesa – così intendo la provocazione del Papa – non è nella prospettiva dell’ancillarità ecclesiale a favore del maschio, né in quella del sacerdozio ministeriale della femmina, che va pensata l’assoluta singolarità del genio delle donne, che ci è indispensabile. L’irriducibile, l’insostituibile, il fondamentale, seguendo il vangelo, non sta qui.
E dove sta, allora? Perché si dovrà pur dare carne e sangue, infine, a questo pensiero. Cerco di leggere tra le righe dello slancio con il quale il papa Francesco ci incalza, e propongo il mio azzardo.
Naturalmente, non ci mancano riflessioni teologiche sulla donna e sul ruolo della donna nella Chiesa. Esiste anche una teologia femminista, che cerca di filtrare cristianamente i nuovi temi dell’emancipazione e della dignità del soggetto umano al femminile.
È anche vero, però, che rimane in circolazione una certa ambiguità, una specie di vischiosa deriva dell’ideologia della complementarietà, che occulta il genio femminile della differenza dietro l’aggiornata riproposizione di un arcaico schema servile. La complementarietà dell’umano è una cosa, il completamento del maschio è un’altra cosa. D’altra parte, il massimalismo avventuroso dell’obiettivo di una perfetta autosufficienza e di una formale uguaglianza, rischia a ogni passo di convertire l’emancipazione della femmina nella replicazione mimetica del maschio: nel segno dell’archetipo – duro a morire – dell’individuo umano compiuto, perfettamente padrone di sé, che non deve chiedere mai. L’ossessione di questo ideale (si fa per dire) ha già fatto abbastanza danni. Nelle nostre civilissime contrade, per altro, si moltiplicano in cronaca (e nella realtà) violenze e sopraffazioni che avevamo archiviato come memorie di un passato lontano. E come mai, proprio ora?
Per quanto riguarda la Chiesa – così intendo la provocazione del Papa – non è nella prospettiva dell’ancillarità ecclesiale a favore del maschio, né in quella del sacerdozio ministeriale della femmina, che va pensata l’assoluta singolarità del genio delle donne, che ci è indispensabile. L’irriducibile, l’insostituibile, il fondamentale, seguendo il vangelo, non sta qui.
E dove sta, allora? Perché si dovrà pur dare carne e sangue, infine, a questo pensiero. Cerco di leggere tra le righe dello slancio con il quale il papa Francesco ci incalza, e propongo il mio azzardo.
«La Chiesa è femminile, perché è sposa e madre. Si deve andare più
avanti, non si può capire la Chiesa senza le donne attive in essa».
L’icona materna e sponsale della Chiesa è abituale, nella retorica
ecclesiastica. Il suo consumo sentimentale è talora al limite
dell’innocuo, se non del patetico.
Immaginiamo di dover declinare
l’icona, come dice il Papa, con la potenza d’iniziativa e d’inventiva
delle donne. Mettiamo che le donne si propongano, da adesso, di
incalzare gli uomini – a cominciare dagli ecclesiastici – a battersi per
la generazione che arriva, orfana di senso, predestinata alla selezione
competitiva e al narcisismo mortifero. Mettiamo che le donne si
battano, nel pensiero e nell’azione, per la potenza generativa e la
passione fraterna delle nuove creature, invece che per i privilegi della
loro prepotenza autoriferita e protetta. Mettiamo che alle donne sia
integralmente restituita, da domani, autorevolezza e dignità di parola,
nell’interpretazione dei segni dei tempi e della volontà di Dio. La
stessa che Gesù riconobbe a Maria, quando la Madre gli impose
elegantemente un miracolo, al di fuori del tempo stabilito e oltre le
regole previste, per evitare alle due giovani creature di Cana la
mortificazione della loro festa più bella.
Insomma, mettiamo che
proprio alle donne – nella Chiesa stessa – sia chiesto di riaprire la
strada per una nuova sapienza della compassione per le creature, per
un’intelligenza non predatoria delle risorse, per una sensibilità non
strumentale delle prossimità, per una bellezza non ornamentale
dell’habitat. E per il dialogo e l’alleanza dei popoli sui fondamentali
dell’umano comune: che solo le donne conoscono a fondo. E mettiamo pure
che i maschi siano capaci di fare un passo indietro, anche nella Chiesa,
per restituire alla polifonia delle voci il suo equilibrio. Affinché la
nuova evangelizzazione insegni persuasivamente la generazione del
Figlio, e non solo l’avvento del regno di Dio.
Non pensi che
ripartirebbe anche la storia, insieme con la felicità dell’annuncio?
Pierangelo Sequeri
"Avvenire" - 31 luglio 2013
"Avvenire" - 31 luglio 2013